Pagina Precedente Per un mondo di pace Pagina Successiva

Ogni anno, nei primi giorni di novembre, ci si ritrova davanti ad un monumento o ad una lapide che ci ricorda i morti di una guerra.

Alla maggior parte dei presenti, qui come in altri luoghi d’Italia, questa commemorazione riporta alla mente solo un ricordo indiretto: di un racconto, di un film, di un documentario televisivo; lo sgomento che si prova, spesso, è tale da far dubitare che fatti simili siano potuti effettivamente accadere.

Per chi non è stato testimone diretto è difficile riuscire ad immaginare le sensazioni che quelle immagini possono indurre in chi, invece, è stato, in qualche modo, vittima di quegli orrori.

Spesso, in queste cerimonie, la retorica celebrativa rischia di offuscare, o addirittura di cancellare, la tragedia che ha colpito intere generazioni: con la morte o la mutilazione di molti, con l`insanabile lacerazione dell` anima che ha segnato altri per tutta la vita.

Ragionando a mente fredda, considerando le vite umane spezzate, le sofferenze inflitte, ma anche i costi economici, le risorse impiegate o distrutte in guerra, si rimane stupiti di fronte a tanta insensatezza.

Eppure, la guerra è tra le attività più antiche dell` uomo, e se altre idee, che un tempo sembravano utopie, si sono lentamente affermate (l` abolizione della schiavitù, la
parità di diritti civili e politici, la tutela dei minori), l` idea che si possa vivere facendo a meno della guerra viene ancora, diffusamente, vista come un` utopia.

L` uomo è riuscito a trasformare alcune
pratiche, molto comuni tra i popoli primitivi, in tabù ormai indiscutibili da secoli (pensiamo ai sacrifici umani o al cannibalismo), non è riuscito invece a modificare il suo atteggiamento nei confronti della guerra, anzi, alcune cause dei conflitti, con il passare del tempo, anziché rimuoverle le ha accentuate (si consideri l` accrescersi della differenza del tenore di vita tra i popoli di diverse parti del mondo).

Evidentemente, in ciascuno di noi, c` è qualcosa di intimo, di profondo, che è malato o addirittura perverso; qualcosa che ci porta periodicamente a piangere i morti in guerra e subito dopo a dimenticare che quei morti non sono stati la conseguenza né di un capriccio della natura né della volontà di un Dio, ma più semplicemente il risultato di una qualche nostra deficienza, una deficienza che ci portiamo dentro da sempre, senza avere avuto mai il coraggio di analizzarla per superarla.

Un grande autore russo dell` ottocento
scrisse che “nessun uomo ha il coraggio di guardare se stesso nel profondo, perché sente che vi vedrebbe qualcosa di ripugnante”; è forse questa mancanza di coraggio la causa prima di quella nostra deficienza? Può darsi.

Certo è che, se dimenticare aiuta a sopravvivere, per vivere, per sentirsi in qualche modo partecipi dell` anima del mondo e della sua storia, è indispensabile scavare nella memoria, riportare alla coscienza quegli elementi di utopia che possono dare un senso al futuro.

Queste cerimonie trovano fondamento e significato nella riconoscenza dovuta a chi, allo svolgersi della storia, ha dato il massimo possibile: la propria vita.

Ricordare questi morti è quindi, per noi, un dovere e un atto di civiltà.

Il giorno in cui non lo sentiremo più come un dovere, ma solo come un atto di civiltà, vorrà dire che l` uomo ha realizzato un`
altra grande utopia: la pace percepita come normalità.

Non sarà domani, ma se non vogliamo allungare l` elenco di quelli che qui oggi
ricordiamo, credo che si debba pensare che lo sia almeno dopo domani; per rispetto dei morti, ma anche per migliorare le condizioni dei vivi: mi riesce difficile pensare le due cose come disgiunte.

Onore, dunque, a tutte le vittime della violenza, e un augurio a tutti noi di non dover mai più passare attraverso quegli orrori che hanno condotto questi nostri concittadini ad una morte così violenta e così prematura.

Sebastiano Dominici