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Quei bambini bruciati in prima linea

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SOTTO I RAZZI E SUI BARCONI

Tocca a loro essere l'avamposto. Andare in prima fila. E cadere, colpiti, tra i primi. Tocca a loro essere quelli che ci fanno sentire che la guerra è arrivata. Che la sua stella velenosa è esplosa in terra, ancora, e non smette di avvelenare. I bambini colpiti dalla guerra. Come angeli che dicono: vedete, è insopportabile… E ancora tocca a loro, nelle barche che dovevano essere di salvezza, di scampo. Come quando si dice: prima le donne e i bambini. E invece in queste barche non si azzardavano a mandarli per primi. Però qualcuno ha pensato di prenderli su. In queste scialuppe del niente. Dove si mischiano le strane contraddizioni di miseri che sborsano migliaia di dollari, di telefoni satellitari, di aguzzini mischiati alle vittime. E tutte verso un vago sogno. Che poi può diventare di sale, di marmo come l'acqua del mare quando non si procede più, o ci si perde per giorni.

Il mondo sta uccidendo i suoi bambini. I responsabili si difendono. Dicono: è stato per errore. Oppure: è stato per disperazione. Ma non c'è errore, non c'è disperazione che possano giustificare. Occorre avere il pudore, almeno, di cambiare il loro nome: non errore, ma colpa. Non disperazione, ma colpa. Perché c'è un momento in cui la possibilità di errore o la spinta della speranza contemplano lucidamente il rischio. Come è lucida nel calcolare la mira, il carburante che serve, i soldi… E sanno quella mente obbediente e remissiva di soldato, o quella mente condottiera di politico o militare, o quella mente di padre in cerca di fortuna, che espongono i bambini a un rischio. Che li danno in bocca al rischio tremendo. Lo sa chi spara per attaccare, e chi per difendere. Chi sale in barca per disperazione o per cercare fortuna. E, certo, lo sa chi potrebbe far di più perché quella guerra e quella disperazione cessino.

Quando a morire sono i piccoli ci si mette a invocare la casualità. Come per proteggersi. Come per dire: impossibile che siamo proprio noi a volere quelle morti. Per non gu ardarsi allo specchio. Per non riconoscere qualcosa di orrendo in un punto del nostro sguardo. Invece è lì. E può accadere che ci si macchi di quella colpa. Di levare loro la vita. Di lasciarli in pasto al fuoco, e nelle gole dell'acqua. Loro, i nostri piccoli.

Tocca a loro, dunque, finendo ingiustamente nel fuoco e nell'acqua, e disperdendo i loro pochi anni come respiro e favilla, indicare come angeli il termine verso cui volge la nostra epoca. Quest'epoca pronta a sfoggiare la propria potenza, a bearsi della propria abilità, capace di metter mano a Marte e ai primi movimenti della cellula, divora i suoi bambini. Forza vinta e atterrata da questa debolezza. L'epoca forte non sa difendere i suoi piccoli. L'epoca potente, l'epoca che si insinua a manovrare e ricreare le parti più segrete dell'umano non riesce a proteggere i suoi più evidentemente piccoli e indifesi. Anzi come matrigna senza più mente, sperduta, li manda avanti a morire. Amputandosi del proprio amore. E del proprio futuro. E non conta la bieca contabilità di chi dice: da certe parti fanno parecchi figli, la perdita costa meno. Come in un calcolo di merce. Come in un calcolo che si farebbe al banco con un cassiere del niente. È un dolore grande la fine di questi piccoli. Che solo Dio può sostenere. Ma a noi tocca uscire da questa epoca intenta a un oscuro commercio con il nulla.

Davide Rondoni da Avvenire 1 agosto 2006